Il settore della moda rappresenta, per l’Italia, un ambito strategico, fondamentale sia per l’immagine del Paese, sia per la sua economia.
Negli ultimi decenni, il modo di raccontarlo è stato comprensibilmente influenzato dalla narrazione social, con format caratteristici come l’haul e i get ready with me.
Tutti approcci che hanno fatto la fortuna di tanti creator ma che non sono adatti a tutte le situazioni.
Parlare di fashion made in Italy, infatti, vuol dire chiamare in causa un settore che porta avanti da secoli un sapere artigianale che il mondo ci invidia e che sta riuscendo a concretizzare una sinergia preziosa con innovazioni tecnologiche come la robotica e l’intelligenza artificiale.
Come reazione ai sopra citati format, considerati spesso svilenti, si sta affermando un approccio alla narrazione social che vede in primo piano focus tecnici su aspetti come i materiali utilizzati per gli indumenti e gli accessori – tema più che mai caldo vista la discussione accesa su sicurezza e sostenibilità di quello che indossiamo – e i danni della contraffazione.
Vera e propria risposta ai contenuti standardizzati spesso tipici del fast fashion e delle piattaforme che sfornano collezioni su collezioni, questi format sono delle piccole perle educative.
Portati avanti da creator di tutto il mondo permettono di sapere, giusto per citare un esempio concreto, che quando si parla di produttori borse in pelle si chiamano in causa aziende estremamente innovative, che hanno puntato su aspetti differenzianti come la co-creation, rendendo il cliente protagonista dell’accessorio che indossa.
Storie e intenzioni
Dietro a questi account che, per fortuna, stanno prendendo sempre più piede, ci sono storie di ogni tipo.
Come molti fenomeni social, sono nati senza un progetto preciso, ma a seguito di momenti di ispirazione spesso legati a momenti difficili e all’intenzione di contrastare fenomeni dannosi come quello della contraffazione, deleteria soprattutto per i piccoli business, che non hanno a disposizione i mezzi legali dei grandi marchi.
A dare impulso è anche spesso la frustrazione nel vedere come, in un mondo in cui si può parlare, a ragione, di bulimia dei contenuti, tantissimi creator non siano assolutamente consapevoli delle caratteristiche, sia negative, sia positive, dei prodotti che pubblicizzano.
Un invito alle aziende a raccontarsi di più
Il fenomeno dei creator social che si focalizzano sui dettagli della filiera fashion made in Italy, evidenziandone i punti forti e l’unicità delle varie aziende, è stato più volte al centro dell’attenzione mediatica soprattutto nell’ultimo anno.
Il focus è aumentato a seguito dell’emergere di scandali che hanno confermato che, molto spesso, quello che viene promosso come made in Italy è sostenibile è invece legato a filiere che non hanno nulla di positivo né per chi ci lavora, né per l’ambiente.
Interrogati sugli effetti che si aspettano dal loro lavoro, hanno chiamato spesso in causa un problema non indifferente: la scarsa tendenza a raccontarsi da parte delle realtà artigianali, che non considerano ancora il content marketing online come un fattore in grado di fare la differenza per le singole aziende e per tutto il sistema moda Italia.
Per lungo tempo, molti degli attori della filiera hanno pensato che bastasse il potere del brand made in Italy per sbancare sul mercato, nazionale e non solo.
Oggi non è più così: il consumatore è sempre più informato – e diffidente – e ha bisogno di sapere con chiarezza in che modo, attraverso i prodotti che sceglie, è in grado di avere un impatto positivo sul mondo.
Eliminare questo velo permetterebbe di aprire le porte su un mondo dove creatività, passione e cura del dettaglio coesistono da anni, grazie a distretti che, spesso nell’ombra, lavorano per tenere altro il nome dell’Italia attraverso una filiera che il mondo ci invidia.